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sabato 21 agosto 2010

Giorgiana Masi

Giorgiana Masi (1958 – Roma, 12 maggio 1977) è stata una studentessa italiana uccisa a diciannove anni durante una manifestazione di piazza.

Giorgiana Masi, fotografia dal documento d’identità. Poliziotto in borghese armato fotografato durante gli scontri, alla sua destra un agente in divisa
A distanza di 33 anni non sono ancora stati individuati i responsabili dell’assassinio.
Giorgiana Masi 1977





Di carcere, d'estate. A Massimo Papini, detenuto per non aver avuto paura della parola "Br"

Alla fine di questo mese Massimo compirà gli anni. Non mi ricordo nemmeno quanti, ma ad occhio e croce 35. Da più di dieci mesi Massimo è in carcere, accusato di associazione sovversiva. Br, quella è la sigla, E a distanza di decenni, fa talmente tanta paura che nessuno dice una parola su di lui. Il Tribunale del riesame a giugno gli ha rifiutato la libertà, e lui resta dentro, colpevole di aver amato, a vent'anni o giù di lì, una ragazza che nelle Br, per sua stessa ammissione, c'è finita davvero. Fragile lei, e lui, che le era restato amico, messo dentro per farle pressione. Ai giudici piacciono le parole, ma lei ne ha dette poche: semplicemente, si è uccisa, come il povero Miché.
Poteva, quello stesso giudice, liberare Massimo? Ammettere di averlo usato come arma, spuntata e inutile, verso una donna che invano gli avvocati avevano chiesto di portare in ospedale? In un Paese di immemori, di spaventati e codardi, si resta in carcere persino per meno di questo. Si rischia di restarci per anni, con una vita fuori che ti reclama, con il sole alle sbarre che picchia e un desiderio inutile di essere altrove. In una estate diversa da questa li ho conosciuti entrambi. A lei devo il dolore, a lui ancora l'amore, il ricordo di essere stati giovani insieme.

Un'altro pestaggio in carcere

 Un'altro pestaggio in carcere, questa volta a Tolmezzo (Udine), i secondini manganellano un ragazzo e  poi lo imbottiscono di psicofarmaci. Qui di seguito un comunicato di alcuni detenuti.

Tolmezzo 15/08/2010Noi detenuti della casa circondariale di Tolmezzo abbiamo deciso di scrivere questa lettera dopo l'ennesimo pestaggio avvenuto nelle carceri italiane.Dopo i casi di Marcello Lonzi a Livorno, di Stefano Cucchi a Roma e di Stefano Frapporti a Rovereto e di tanti, troppi altri in giro per la penisola, siamo costretti a vedere con i nostri occhi che la situazione carceraria in italia non è cambiata per niente.Mentre da una parte ci si aspetta dai detenuti silenzio e sottomissione per una situazione inumana (quasi 70.000 prigionieri a fronte di nemmeno 45.000 posti, percorsi di reinserimento sociale pressochè inesistenti, scarsissima assistenza sanitaria, fatiscenza delle strutture ecc...) si ha dall'altra il solito trattamento vessatorio da parte del personale penitenziario, non giustificabile con la solita scusa sulla scarsità di uomini e mezzi.Denunciamo quello che, ancora una volta, è successo venerdì 13 agosto proprio qui a Tolmezzo, dove un ragazzo, M.F., è stato picchiato con tanto di manganelli nella sezione infermeria.Se come per altre volte i protagonisti dell'aggressione erano, tra gli altri, graduati ormai noti ai detenuti per le loro provocazioni, l'altra costante è  stata la completa assenza del comandante delle guardie e della direttrice dell'istituto.La nostra situazione è fin troppo pesante per accettare la sottomissione fisica dopo quella psicologica.Per noi tacere oggi potrebbe voler dire ricevere bastonate domani se non fare la fine dei vari Stefano o Marcello domani l'altro.Noi non ci stiamo e con questa nostra ci rivolgiamo a chiunque nel cosidetto mondo libero voglia ascoltare, affinchè la nostra voce non cada morta all'interno di queste mura.
alcuni detenuti del carcere di Tolmezzo.

mercoledì 18 agosto 2010

Federico Aldrovandi

La polizia: "E' morto di overdose". I testimoni: "No, lo hanno pestato loro"
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione 12 gennaio 2006
13 gennaio 2006
Un diciottenne muore a Ferrara pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia dalle parti dell'Ippodromo. I giornali locali, a caldo, scrivono di un malore fatale, sembrano alludere a un'overdose. Ma subito saltano fuori particolari inquietanti e contraddizioni. La versione suggerita dalla questura fa a pugni con la relazione di servizio della squadra mobile. E chiunque vedrà il corpo del giovane non riuscirà più a credere a una sola parola della versione ufficiale.
Quello che stiamo per raccontare è successo all'alba del 25 settembre. Una domenica mattina. Ma la vicenda ha oltrepassato da pochissimi giorni le mura della città. Da quando la madre del ragazzo, dopo mesi di inutile attesa della relazione medica, ha deciso di aprire un blog e raccontare i propri dubbi.
Federico Aldrovandi aveva 18 anni, li aveva compiuti il 17 luglio. Viveva a Ferrara, periferia sud, zona di Via Bologna, avrebbe preso la patente la settimana successiva, studiava da perito elettrotecnico, suonava il clarinetto, faceva karate, era un mezzo campione vincitore di molte coppe, bravo in matematica e meno in inglese, impegnato in progetto con Asl e scuola per la prevenzione delle tossicodipendenze. Era un salutista, leggeva le etichette di quello che mangiava. E il sabato sera, con gli amici, andava spesso a Bologna: è lì che ci sono locali, concerti, centri sociali. Così era successo anche quella volta. Erano stati al Link, il concerto reggae era saltato ma la serata era filata via tranquilla. E' vero, Federico aveva preso qualcosa: uno "sniffo" di roba esilarante (una smart drug, naturale e non proibita) più un "francobollo" di Lsd. Nel suo sangue sono state trovate tracce di oppiacei e chetamina, poca roba, però. Nulla che giustificasse un'overdose o un comportamento aggressivo. E poi lui non era proprio un tipo aggressivo. La madre, gli amici, il parroco del quartiere, nessuno lo descrive come è stato descritto dalle veline di Via Ercole I D'Este, dove sta la polizia, e dalle dichiarazioni alla stampa. Erano appena passate le 5 quando il gruppo, tornato a Ferrara, si separa da Federico che decide di fare l'ultimo tratto a piedi, per rilassarsi, è ancora estate, si cammina volentieri. Andrea, Michi, "Burro" e gli altri non lo avrebbero rivisto più.
A questo punto comincia la versione della polizia. Il "contatto" avviene alle 5.47. Una volante sarebbe stata avvertita da una donna abitante in Via Ippodromo, preoccupata dalla presenza di un ragazzo che, forse, camminava in modo strano, forse cantando. Magari farneticava pure, come diranno gli agenti che dicono di averlo fermato e qualche minuto dopo, alle 6.10, avrebbero chiamato il 118.
Otto minuti dopo l'ambulanza lo trova già morto, a terra, con le manette ai polsi, a un passo dal cancello del galoppatoio. Non ci sono i margini per la rianimazione. Qualcosa o qualcuno ha causato l'arresto respiratorio che poi ha bloccato per sempre il cuore del ragazzo che camminava da solo, disarmato, che era incensurato, non stava compiendo alcun reato quella mattina e non aveva mai fatto male a nessuno.
La strada verrà bloccata per più di cinque ore. Nel quartiere si sparge la voce che è morto un albanese, oppure un drogato. O un drogato albanese.
A casa di Federico, alle 8 ci si accorge che il letto è vuoto. Il cellulare squilla invano quando sul display si illumina la parola "mamma". Pochi minuti dopo, quando è il padre a chiamare (ma sul telefonino è memorizzato col nome, Lino), una voce imperiosa intima di qualificarsi e spiega che stanno facendo accertamenti su un cellulare "trovato per strada". Solo verso le 11 si presenta una pattuglia a casa Aldrovandi e annuncia il fatto con poche, pochissime, parole. Lo zio paterno, Franco, 42 anni, infermiere, parte per l'obitorio. In macchina gli spiegano: "Ha preso qualcosa che gli ha fatto male". Ma il viso sfigurato, il sangue alla bocca e un'ecchimosi all'occhio destro fanno venire troppi dubbi. Poi si saprà di due ferite lacero-contuse dietro la testa, dello scroto schiacciato e di due petecchie - due lividi da compressione - sul collo. "Era una furia", ripetono gli agenti e i funzionari accennando a un comportamento autolesionistico del ragazzo. Dicono che avrebbe sbattuto la testa al muro ma non si troveranno mai tracce di cemento sul viso, né di sangue sui muri vicini. Lo zio e gli amici le cercheranno per giorni intorno alla pozza di sangue davanti all'ippodromo dove "Burro" lascia una poesia dedicata all'amico ma la polizia, così dicono i vicini di casa, gliela farà sparire pochi minuti dopo. Dicono anche, in questura, che sarebbe stato abbandonato dai suoi amici che, invece, respingono decisamente l'accusa. La felpa e il giubbino di quella sera, restituiti alla famiglia, sono intrisi di sangue. Il mattinale domenicale della questura spara subito la tesi del "malore fatale". Le indagini partono dal medico di famiglia a cui verranno chieste notizie sul "drogato", lo stesso si cercherà di fare con i compagni di Federico, convocati dalla narcotici e dalla mobile e torchiati con domande da film di serie B: "Lo sappiamo che siete tutti drogati, diteci dove comprate la roba". Anche a loro la solita versione: Federico sarebbe stato trovato su una panchina, ucciso da uno "schioppone", ossia da un malore. Ma il giorno dopo un giornale azzarda dei dubbi. La questura riesce a far calare il silenzio, chiede (e ottiene) di pubblicare sotto gli articoli sulla vicenda la storia di una maga condannata per calunnia alla polizia. E, stranamente, le indagini d'ufficio vengono assegnate dal pm proprio alla polizia. Vengono convocati i genitori, senza avvocato, per sentirsi ripetere la versione dell'overdose, della gioventù bruciata ecc... Il procuratore capo dirà perentorio che la morte non è stata causata dalle percosse anticipando l'esito di una autopsia, allora appena disposta, e non ancora resa nota. Anzi, per la quale è stata chiesta un'ennesima proroga.
La perizia tossicologica, però, smentisce la polizia. Dovrà essere l'autopsia a chiarire le circostanze. Il rapporto delle volanti svela che quattro agenti sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso: due sono usciti con una prognosi di sette giorni, gli altri addirittura di 20. Ma nessuno s'è fatto ricoverare. E' forse il primo caso nella storia della ps, di poliziotti aggrediti che non lo sbandierano ai quattro venti. Perché? Perché non ammettere la colluttazione? Federico si sarebbe difeso o ha aggredito? Perché usare le manette quando esistono procedure precise per sedare persone con funzioni respiratorie compromesse dall'uso di sostanze? Ci sono pure manganelli in questa storia. Uno addirittura s'è rotto quella mattina, probabilmente sulla schiena, sulle gambe e sul viso del ragazzo. I segni fanno pensare che fosse impugnato al rovescio. Il sangue sul vialetto e sui vestiti fa pensare che le botte sarebbero iniziate a piovere prima del luogo della morte. Forse lo inseguivano, forse urlava mentre fuggiva. Forse è per questo che sono stati chiamati i rinforzi: un'altra volante e una gazzella. "E' una calunnia inopportuna e gratuita. Non è neppure ipotizzabile che sia morto per le percosse - dice ancora a "Liberazione" Elio Graziano, questore di Ferrara - è stata una disgrazia, una vicenda penosissima, era in stato di esagitazione. Quando i "nostri" lo fermarono morì, ritengo per gli effetti delle sostanze. E poi ci sono i testimoni...". Già, i testimoni: quelli che si sentono in giro sono resoconti vaghi ed evasivi di persone che avrebbero sentito solo urla e sgommate. Ma Ferrara è una città piccola, tutti sanno tutto. Qualcuno ha visto Federico immobilizzato, a terra, col ginocchio di un agente puntato sulla schiena e un manganello sotto la gola mentre l'altra mano del tutore dell'ordine gli tirava i capelli. Il ragazzo sussultava, faceva salti di mezzo metro. A fianco a lui, una poliziotta si sarebbe vantata: "L'ho tirato giù io, 'sto stronzo!". Così avrebbe riferito un testimone, ragazzo sveglio e vivace, si dice, probabilmente immigrato, ma stranamente sparito di fretta dalla città. Anche sua madre ha visto tutto e non solo lei. Gli Aldrovandi sperano che il clamore della notizia su questo e altri giornali faccia tornare la memoria a qualcuno.
Nei corridoi della questura, la vicenda viene minimizzata ma il blog della signora Patrizia sta seminando preoccupazione e nervosismo. Si lascia trapelare a mezza voce che il ragazzo fosse un tossico e la sua una famiglia "problematica" seguita da un "prete di frontiera". Pare che anche un carabiniere della gazzella abbia esclamato alla vista del corpo: "Ecco il solito coglione di don Bedin!".
Domenico Bedin è il parroco di S. Agostino, prete coraggioso, fondatore di un'associazione che aiuta poveri (italiani e no), tossicodipendenti, giovani, migranti con o senza carte. La foto di Federico è infilata nella cornice dello specchio nel suo ingresso della canonica. Conosce gli Aldrovandi e i loro amici, "gente normalissima - conferma - e il ragazzo aveva un buon carattere e non era un tossico".
La città. "La città non ha reagito - continua don Bedin - non ha mostrato rabbia, né passione. Per i giovani è difficile trovare stimoli, sentirsi coinvolti in un progetto. Si vive una specie di attesa degli eventi, c'è chi viene a chiedermi informazioni ma sottovoce. La Bossi-Fini, che produce clandestinità, ha aumentato la tensione tra chi vive per strada. Lo hanno ammesso gli stessi carabinieri nel loro rapporto di fine d'anno". Il capo della mobile si vanta sulla stampa dell'aumento degli arresti ma "la città è sostanzialmente tranquilla - spiega Riccardo Venturi, uno dei legali della famiglia - ma l'ossessione sicuritaria viene follemente pompata, si scimmiotta Bologna con il terrore degli extracomunitari. Ma siamo una città dormitorio, senza fabbriche ma anche senza baraccopoli, una città che vive di se stessa". Una città che deve capire perché così tanta violenza e tante bugie contro il ragazzo che non aveva mai fatto male a nessuno. La famiglia, sua madre è impiegata al comune, suo padre è ispettore della polizia municipale, chiede solo di conoscere la verità e "che la sappiano tutti, senza fango su Federico". Rifondazione comunista, in città e in parlamento annuncia la presentazione di interrogazioni urgenti a firma della deputata Titti De Simone e della consigliera Irene Bregola. Sulle tv private il questore insiste: "L'intervento degli operatori è avvenuto al solo scopo di impedire al giovane di continuare a farsi del male". Missione fallita.

Nanni De Angelis

Al momento dell'arresto Nanni venne scambiato per Ciavardini e, pertanto, colpevole dell'omicidio dell'agente Serpico. Per questo venne massacrato di botte sul posto, mentre al commissariato venne fatto sfilare in un corridoio tra due ali di poliziotti (circa un centinaio) ed assalito.Ciavardini invece si salvò soltanto grazie al poliziotto che lo arrestò, il quale sparò due colpi di pistola in aria per farsi largo tra gli agenti che vorrebbero uccidere anche lui, ancora scambiato per l'amico che continuava ad essere colpito selvaggiamente.

Intorno alle 11 dello stesso mattino del 4 ottobre, i sanitari dell'ospedale San Giovanni, dopo aver visitato De Angelis, compilarono un referto medico che recò una prognosi di sette giorni (salvo ulteriori complicazioni) e ricovero in osservazione nel medesimo ospedale. Nanni venne invece inspiegabilmente dimesso dal San Giovanni la mattina del 5 ottobre e tradotto con un'ambulanza della Croce Rossa alla casa circondariale di Rebibbia e messo in isolamento, su disposizione di Guardata, locale procuratore della Repubblica.

Venti minuti dopo De Angelis fu trovato morto impiccato con un lenzuolo nella cella di isolamento n° 23 del carcere di Rebibbia.

Sui quotidiani di quel giorno si trovava la notizia degli arresti, ma soltanto la foto di Ciavardini, mentre per De Angelis c'era soltanto una foto della patente semi-irrisconoscibile di qualche anno prima.

La versione ufficiale parlò di suicidio, ma la famiglia annunciò passi legali e la stampa si pose numerose domande.

Nanni si sarebbe legato ad un termosifone con un lenzuolo, che secondo il regolamento carcerario egli non doveva avere in dotazione in quel momento, e si sarebbe impiccato stando in ginocchio e mantenendo il laccio teso con il collo proteso verso il basso.

Secondo i familiari Nanni ed il quotidiano La Repubblica, Nanni sarebbe dovuto inoltre rimanere in ospedale per almeno 72 ore in stato di osservazione, in quanto nella rissa con gli agenti aveva ricevuto un colpo alla testa. Ed a testimoniarlo c'è il referto per sette giorni di recovero assistito dell'ospedale San Giovanni.

Inoltre, dagli interrogatori di poliziotti, infermieri e dottori che compaiono davanti al magistrato, risulta che tutti abbiano affermato quasi con le stesse parole che Nanni aveva ferite di ogni genere, ma che stava psicologicamente bene, era tranquillo e non aveva manifestato alcun proposito suicida.

Altri particolari sono tragicomici e nessuno li trova incongrui, come ad esempio il fatto che De Angelis arrivò in carcere "a torso nudo" in pieno autunno.

L'autopsia, ordinata dal magistrato, fece cadere tutte le testimonianze dei medici del carcere e dell'ospedale, non attenuando la realtà del corpo devastato di Nanni:
« In corrispondenza della regione occipitale, sulla proiezione cutanea della protuberanza destra, soluzione di continuo, modicamente suturata con un punto in seta lungo centimetri 1,5 (cioè una prima ferita, ricucita). Sulla regione parietale sinistra centimetri 6, superiormente al sopracciglio, area escoriata in forma irregolarmente ovalare (cioè un livido ed un bozzo) di centimetri 4x2, in parte ricoperta da piccole creste ematiche e polvere bianca (medicazione). La coda del sopracciglio e interessata da una soluzione di continuo con margini irregolari, infiltrati, lunga centimetri 1 circa, suturata con punto di seta (cioè un'altra ferita). Il sopracciglio risulta discretamente tumefatto. Sulla proiezione cutanea della parte ossea dela naso, si apprezzano due escoriazioni di centimetri 2, l'anteriore, di centimetri 0,5 la posteriore. Dette escoriazioni si inseriscono in un'area ecchimiotica, in parte escoriata che interessa anche la prossima regione zigomatica. [...] Nella regionale latero-cervicale destra, soffusione ecchimiotica di forma irregolare rotondeggiante dell'ampiezza di centimetri 1,5 circa. »

(dal referto firmato dal dottor Silvio Merli e da altri due colleghi, responsabili dell'autopsia sul corpo di Nanni De Angelis)
« Al livello della settima e ottava costola tra l'ascellare anteriore e l'ascellare posteriore è interessata da un'area escoriata di centimetri 4. Altre escoriazioni di minore entità sono apprezzabili superiormente e inferiormente alla precedente. Altre interessano la proiezione cutanea della terza costola. Tenue soffusione verdognola in corrispondenzadella fossa iliaca sinistra [...] 4 centimetri. Due escoriazioni sulla linea ascellare. Altre escoriazioni sulla zona lombare. Sempre sulla zona lombare una cicatrice lunga centimetri 3,5 a decorso lievemente obliquo (la coltellata di piazza Annibaliano). Escoriazioni [...] sul terzo inferiore del braccio [...] anteriormente e posteriormente al gomito[...] sull'epitroclea [...] sulla regione antero-laterale della gamba. »

(dal referto firmato dal dottor Silvio Merli e da altri due colleghi, responsabili dell'autopsia sul corpo di Nanni De Angelis)

Inoltre i medici responsabili dell'autopsia rilevarono anche che all'ospedale San Giovanni, due ore circa dopo il fatto, Nanni venne dichiarato "in stato di incoscienza", prova di "uno stato di sofferenza del sistema nervoso centrale".

L'autista dell'ambulanza, Salvatore Serrao, testimoniò che "non ci fu consegnata alcuna certificazione medica, nè copia della cartella clinica".

Nessun supplemento d'indagine venne eseguito. La requisitoria si tenne in piena estate, il 17 agosto 1984. Archiviata senza processo.

RICCARDO RASMAN

RiccardoRasman.jpg  Riccardo Rasman era alto 1 metro e 85, pesava 120 chili ed era affetto da “sindrome schizofrenica paranoide”. Il 27 ottobre del 2006 muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, aveva 34 anni ed è morto per “asfissia da posizione” dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti.

La sindrome di Riccardo iniziò durante la leva militare, durante il quale subì numerosi episodi di quello che viene banalmente definito “nonnismo”, ma che invece è un misto di violenza e prepotenza. E’ da lì che Rasman inizia a vivere con la paura delle divise. Nei video una bella video-inchiesta sul caso.

La sera del 27 ottobre 2006 l’intervento delle pattuglie avvenne dopo la segnalazione di “spari” provenienti dalla casa di Riccardo, erano petardi per festeggiare il nuovo lavoro da netturbino. Arrivano gli agenti che gli intimano di aprire la porta, lui si rifiuta per paura rannicchiandosi sul letto. Gli urla contro. Loro sfondano la porta e nessuno li ferma.

Riccardo è stato trovato con le manette e le mani dietro la schiena, filo di ferro alle caviglie, diverse ferite e con segni di “imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca, effettuato con un cordino o con qualcosa di simile. Questo imbavagliamento avrebbe causato una ulteriore restrizione, soprattutto della respirazione”. Anche se immobilizzato “esercitavano sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie”. Da lì la morte per asfissia. La perizia legale recita:

“per causare le lesioni riscontrate gli agenti hanno usato mezzi di offesa naturale in maniera indiscriminata anche verso parti del corpo potenzialmente molto delicate, ma anche oggetti contundenti come potevano essere il manico dell’ascia rinvenuta nell’alloggio o il piede di porco usato dai vigili del fuoco per forzare la porta d’ingresso. Gli stessi agenti hanno ammesso di averlo utilizzato contro il braccio destro di Riccardo”

Un caso legato inevitabilmente a quello di Federico Aldrovandi, anche per un avvocato in comune, Fabio Anselmo. Dopo due anni finalmente il processo.